Ceci n’est pas une analyse du vote

27 Giugno 2016
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Non è nemmeno un’analisi politica: è una raccolta di impressioni e di stati d’animo scaturiti dalla tornata elettorale, che niente ha a che vedere con la lettura scientifica e metodica che un’analisi del voto dovrebbe avere. E poi l’analisi della sconfitta come la fa Zoro  (Diego Bianchi) non la fa nessuno.

Permettetemi però prima di togliere il proverbiale «sassolino dalla scarpa»: in queste settimane abbiamo assistito, in particolare sui social network, a un continuo zampillare di analisi senza metodo e senza onestà intellettuale, che pretendevano di piegare la lettura dei dati al punto di vista e alla posizione politica di chi le scriveva. “Analisi” nelle quali gli unici dati rigorosamente riportati erano esclusivamente quelli in grado di dar man forte alla propria posizione personale, tralasciando colpevolmente tutte quelle situazioni statistiche e numeriche difficili da spiegare o da rendere compatibili con le proprie opinioni, spesso spacciate per verità illuminate e illuminanti. Io credo invece che le analisi del voto debbano contribuire a fare luce su aspetti presenti nell’elettorato e, quindi, nel mondo reale, che non abbiamo inteso bene o che non siamo riusciti nemmeno a intercettare: uno strumento al servizio del Partito per comprendere errori ed incertezze. Trasformare questo lavoro complesso nell’ennesimo esempio di onanismo digitale o di subordinazione della realtà alle proprie pretese personali non giova a nessuno e anzi ci distanzia sempre più dalla comprensione di alcuni elementi che, i risultati elettorali lo dimostrano, ci sono evidentemente sfuggiti.

La cosa davvero grave, e che mi riempie di amarezza, è che questa corsa – postuma, nella maggior parte dei casi – a segnalare problemi sottaciuti e colpe imperdonabili sia partita difatti a urne appena chiuse, quando i primi risultati dei ballottaggi cominciavano ad affluire. Non si è avuto rispetto alcuno per quei candidati, volontari, segretari di circolo, che in quegli stessi momenti subivano sulla propria pelle la sconfitta. Tutto doveva, e deve, essere subordinato e riconducibile alla battaglia apocalittica tra il renzismo e la rottamazione non ancora conclusa, da un lato, contro l’antirenzismo e la resistenza contro il partito autocratico, dall’altro.

Ci stiamo trasformando, in maniera anche piuttosto rapida, in un Partito degli estremi e dei poli contrapposti, dove poco o punto spazio si lascia alle sfumature e alle posizioni mediane: sul governo Renzi (che poi sarebbe il governo del Partito Democratico), sul Referendum, su ogni singola questione ci si polarizza in maniera netta, lasciando campo libero a un semplicismo imbarazzante.

La stessa lettura degli esiti del voto passa da una chiave completamente localistica a una tutta riconducibile al malessere nei confronti del Governo: è più probabile, invece, ma mi rendo conto che sarebbe uno sforzo titanico per chi ormai vive di contrapposizione e in essa anzi trova fondamento identitario, che la verità sia un po’ più sfumata.

Potrebbe essere che al primo turno i singoli risultati siano stati più riconducibili a dinamiche locali, a candidature più o meno azzeccate, a liste di Partito più o meno rappresentative delle città, a coalizioni più o meno tradizionali o azzardate, infine anche al come si è amministrato precedentemente o a come si è fatto opposizione e creata alternativa. Insomma, tutta una serie di fattori che mi pare difficile subordinare completamente alle percezioni periferiche, per quanto mediaticamente sempre forti, di dinamiche di Partito e di Governo nazionali.

Allo stesso tempo, non si può non dare una lettura in parte nazionale di quanto successo nelle due settimane intercorse tra primo e secondo turno. Ed è innegabile che in alcune realtà le dinamiche nazionali abbiano giocato un ruolo chiave, soprattutto per coagulare contro i nostri candidati tutte le forze di destra: nel nome dell’antirenzismo e dell’opposizione dura e pura al governo, infatti, abbiamo assistito a una «Santa Alleanza», quasi aritmetica nei risultati, tra Lega Nord e Movimento Cinque Stelle, rispetto alla quale il campo progressista non può non guardare con attenzione e una discreta dose di preoccupazione e che forse, più di ogni altra cosa, è sintomatica di un qualcosa di più profondo che ci coinvolge direttamente.

La mia impressione è che il Partito Democratico, a ogni livello, abbia preso dei ceffoni che devono per forza di cose destarlo dal torpore causato dal mito della propria autosufficienza. È terminato, e non è detto che sia un male, l’effetto della curva positiva determinata dalle elezioni europee prima e dalle elezioni regionali poi (che in realtà qualche segnale preoccupante lo avevano mostrato).

Non è detto che una curva positiva non possa ripresentarsi, ma appare evidente che non possa essere la stessa di prima. Questa fase ormai al tramonto è stata il palcoscenico dell’innegabile protagonismo e della spinta carismatica e comunicativa di Renzi: una fase per certi versi contraddittoria, ma che sicuramente ha rappresentato per il Partito Democratico una transizione verso nuove prospettive e nuove responsabilità.

Nuove responsabilità che però non hanno messo da parte quelle vecchie. Se, infatti, ci sarà una nuova fase positiva per la sinistra, sarà quella che saremo in grado di costruire trasferendo in maniera semplice (efficace ma non semplicistica) i valori, le tradizioni, i simboli della nostra storia e cultura nel contesto completamente nuovo della società italiana estremamente frammentaria del XXI secolo.

Serve una nuova, non necessariamente anagraficamente, classe dirigente che dia inizio a questa fase storica: una classe dirigente che anzitutto si prenda la responsabilità di promuovere, forse anche costringere, la discussione in qualche modo definitiva sulla funzione storica del Partito Democratico, sul proprio campo da gioco e sulle strategie perseguibili. Una classe dirigente con l’ambizione di cambiare il mondo e con l’umiltà di farlo attraverso lo studio e la conoscenza delle «condizioni materiali» e spirituali esistenti, presupposto fondamentale per dare credibilità e concretezza alla propria azione politica.

Io mi auguro che, per quel poco che vale, queste considerazioni un po’ sconclusionate possano essere da spunto, anche nelle Marche, per una riflessione a tutto tondo nel Partito Democratico, perché tanti sono gli elementi che qui, per scelta deliberata o dimenticanza, non sono stati trattati: tanti temi che meriterebbero spazio e attenzioni ben maggiori di quelli che solitamente riserviamo, nelle nostre sedi e nelle nostre riunioni, alle piccinerie fatte di inimicizie, di rancori e di scaramucce.

L’onere della prova ai Giovani Democratici e a chiunque vorrà.

 

Il Segretario Regionale

Francesco Di Vita