Bellanova, Braccia rubate all’Agricoltura

9 Settembre 2019
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Quando mi hanno chiesto di scrivere questa cosa sulla Bellanova per il sito ho pensato di rifiutare, per tutta una serie di motivi, che vanno dalla totale mancanza di voglia al fatto che ritengo che dell’argomento se ne sia già parlato in maniera abbastanza estensiva, e sono dell’idea che se quello che dici non aggiunge niente alla discussione in corso allora tanto vale non dire nulla. Che poi io non sono mai stato particolarmente bravo a stare zitto, e alla fine un po’ di voglia m’è venuta, ed è finita che ci ho passato tutta la notte.

Teresa Bellanova è nata nel 1958, un anno dopo mio padre. E’ una generazione che non capisco e che non capirò mai, e quando mio padre mi racconta di quegli anni non riesco minimamente ad immedesimarmi. Sono, e sarò sempre, irrimediabilmente borghese nella mia concezione del mondo e di quello che mi circonda.
Teresa Bellanova a quattordici anni faceva la bracciante, a sedici era già capolega della federazione braccianti della CGIL. Io a sedici anni leggevo Borges, ero arbitro di calcio, mi ero appena iscritto a Facebook e mi iscrivevo a gruppi estremamente impegnati tipo “Quelli che…quando la mamma urla:”è pronto!!!”…rispondono”Arrivooo!!” (ho ricopiato il nome del gruppo per accuratezza e non mi assumo nessuna responsabilità sull’utilizzo barbaro della punteggiatura).
A vent’anni, Teresa Bellanova è coordinatrice regionale delle donne della Federbraccianti. Io a vent’anni scrivevo le mie prime, pretenziosissime, sceneggiature, citavo Montale a sproposito, andavo all’università, e litigavo con mio zio che mi diceva spesso che sarei dovuto invece andare a zappare la terra. Facebook è impietoso, tanto quanto mio zio, e le differenze sono evidenti.

Dicevo di mio zio, che cito perché da giovane zappava letteralmente la terra ed è della stessa generazione di mio padre e della ministra. I suoi genitori coltivavano pomodori e raccoglievano le olive per farci l’olio ma potevano comunque permettersi di mandarlo a scuola, almeno la mattina. Poi un giorno, avevano guadagnato abbastanza, lo mandarono all’università. Oggi è medico e parla latino fluentemente. Mio padre manteneva sempre un inusuale silenzio durante questi discorsi. Da piccolo, viveva con i suoi in una fattoria dove allevavano galline, e mi raccontò che aveva dato a ognuna di loro un nome. A un certo punto dovettero tirare il collo alla sua preferita, e lui pianse, mentre mangiava. Mio padre non mi ha mai detto che avrei dovuto zappare la terra, però. Era sollevato, in realtà, che io fossi in un certo senso “salvo”, che non avrei mai dovuto faticare come lui o come mio zio.

Quando ho letto i primi insulti al vestiario della Bellanova non mi sono preoccupato più di tanto. Capiamoci, il bodyshaming è una cosa seria, ma il pubblico di internet ci ha abituati a ben di peggio e non mi aspetto che dalla sera alla mattina si comprenda che l’offesa sul fisico, la mortificazione della femminilità e l’adesione a degli standard idealistici e completamente inutili scompaiano. Ma quando ho cominciato a leggere dubbi sulla sua competenza sono impazzito.

Perché ripensavo a mio zio, e a quanto la rivendicazione culturale della laurea conti per lui, pur senza mai rinnegare il duro lavoro che ce l’aveva portato. Perché ripensavo a mio padre, e a quanto fosse felice di avermi potuto offrire una vita senza calli sulle mani. E a quanta stima io abbia per entrambi, di quanto rispetto io abbia per il loro percorso di vita. E pensavo a quanto fare la bracciante fosse una necessità, non una scelta. A quanto la laurea fosse un privilegio per pochi. A quanto fossi fortunato, io.

La verità è che sono dubbi che non stanno in piedi. La democrazia si basa su un principio fondante ben preciso: il valore della rappresentatività. La politica deve governare i processi, e lo fa mettendo differenti prospettive al governo di questi. Scegliere di utilizzare la prospettiva di un bracciante, che per alcuni è una prospettiva “bassa”, è una precisa scelta di campo, che da sinistra non possiamo più rimandare, e che in altri e forse più illuminati tempi abbiamo fatto senza porci troppe domande. Sembrerà un discorso antiquato, e non lo è, ma da una parte ci stanno i padroni, i proprietari terrieri, e dall’altra i lavoratori, i braccianti, e noi abbiamo il dovere politico di guardare il mondo con gli occhi degli ultimi, non dei primi. Una prospettiva che come Partito Democratico a volte sembriamo aver dimenticato ma che fa comunque parte del nostro retaggio culturale e politico e che dobbiamo rivendicare orgogliosamente.

Anche se è una rivendicazione difficile, sopratutto perché è una rivendicazione difficile. Per troppo a lungo una certa parte della nostra dirigenza ha preferito attaccare i nostri avversari sulle qualifiche. Lo sapete di cosa sto parlando, Di Maio “il bibitaro” è se possibile la pagina più vergognosa della nostra comunicazione politica. Non nutro alcuna simpatia per Di Maio, né personalmente né politicamente, ma vederlo ridotto a “bibitaro” per amore di una valutazione tecnocratica sulla direzione del Paese mi fa ribollire il sangue. Siamo stati i primi ad avvelenare il pozzo, ed è arrivato il momento di assumercene la responsabilità e ristabilire quei principi inderogabili che ci siamo persi per strada.

Stabilire che solo chi abbia “studiato” possa accedere alle massime cariche alla guida del paese è un discorso schifosamente classista nella sua forma più semplice da individuare, quella economica: esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. Cittadini che possono accedere all’istruzione superiore, e quindi anche alle cariche pubbliche, e cittadini che non possono accedere all’istruzione superiore, e che quindi non dovrebbero accedere alle suddette cariche. E’ una divisione netta della popolazione sulla base del ceto. Ma il principio sopravvive anche senza i limiti economici. Se immaginiamo, per assurdo, un mondo dove nessuno debba preoccuparsi di andare a lavorare, dove la possibilità di accedere ad un istruzione superiore non abbia limiti per nessuno, possono comunque esistere persone che scelgano di non accedervi, per qualsiasi motivo. E, anche in quel caso, un non laureato deve poter esprimere i suoi rappresentanti, sia votando che candidandosi in prima persona. “No taxation without representation” dicevano i coloni americani che non potevano accedere al parlamento inglese, e ci hanno pure fatto una guerra, che, per inciso, hanno vinto.

La controargomentazione più diffusa al principio della rappresentatività è, ad ogni modo, sempre la stessa, l’avrete sicuramente sentita: quando vai da un medico ti aspetti di vedere una laurea appesa alle pareti, vuoi che sia competente e non ti faresti mai operare da un chirurgo senza laurea, né sceglieresti di farti curare da un tizio qualsiasi deciso a maggioranza, quindi anche i politici devono essere competenti.

E’ un’argomentazione solida, in realtà, nessuno metterebbe mai in dubbio che dobbiamo pretendere competenza da un medico. Ma i ministri non sono medici. Nella metafora sopracitata i ministri sono i rappresentanti dei pazienti, e i pazienti hanno il diritto di scegliere come curarsi. Puoi scegliere se fare la chirurgia laser oppure portare gli occhiali, ad esempio, a seconda di quello che ritieni sia più corretto per te, e puoi addirittura decidere di NON essere curato, contro il parere dei medici. I ministeri sono pieni di tecnici pronti a dare valutazioni di rischio basate su studi approfonditi delle problematiche, e il loro ruolo è di trovare le soluzioni, non decidere quale soluzione sia la migliore per il paese, questo perché le valutazioni tecniche non possono prescindere dalle valutazioni sui costi sociali, sul consenso popolare, sulla sintesi parlamentare, e che non vanno necessariamente nella direzione che loro preferirebbero. A questo servono i ministri. A prendere le decisioni POLITICHE, non a tirare fuori il coniglio dal cilindro.

Non posso poi non notare l’ironia del non conoscere il ruolo politico del ministro e contestualmente del volerne contestare le competenze, ma immagino che questa vada sprecata il più delle volte, e mi accontenterò di sorriderne da solo.

E sorridente mi ritrovo, oramai arrivato alla fine, addirittura con un suggerimento per quanti ritengono che sia necessaria una laurea per fare politica e che vorrebbero lasciare il paese in mano a tecnici e burocrati e lavarsene costantemente le mani in funzione di una non meglio precisata superiorità della tecnica sul consenso popolare, e mi auguro che questo consiglio non venga recepito come una pretesa di superiorità morale, ma quanto più letteralmente possibile:

Andate a zappare la terra.

Michael Musto

Segretario dei Giovani Democratici di Pesaro