Legge 194/78: una battaglia di diritti?

18 Aprile 2016
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In questi ultimi mesi, sta tornando alla ribalta la discussione che vede come oggetto principale la Legge 194/78 e la sua applicazione, che regola i casi in cui una donna può legittimamente richiedere di abortire. La legge fu considerata, 40 anni fa circa, una vittoria dei movimenti civili e progressisti, il risultato di una battaglia per i diritti della donna. Una battaglia che vide pieno riconoscimento in Italia già dal febbraio 1975, quando la Corte Costituzionale affermò con la sentenza 27 che ricorrere all’aborto è conforme al diritto italiano; una battaglia che non finì con la promulgazione della legge nel 1978, ma che vide di fronte a sé ulteriori ostacoli, come il referendum abrogativo del 1981 proposto dal Movimento Per La Vita, in cui il voto per il No confermò la legittimazione popolare della legge.

Il testo della legge in sé, tuttavia, non è mai stato esente da critiche. Molto si è discusso sul fatto che la legge tenda a mettere in secondo piano quello che doveva essere il principio cardine, ovvero la possibilità della donna di autodeterminarsi, in particolare l’autodeterminazione procreativa. Al contrario, la legge appare fortemente tendente alla salvaguardia della salute della donna, del concepito e al diritto di autodeterminazione degli operatori medici, introducendo la cosiddetta “obiezione di coscienza”. La legge stessa, inoltre, stabiliva norme di prevenzione la cui attuazione era delegata ai consultori: una scelta che, per come viene applicata all’atto pratico, è stata percepita come un tentativo di ritardare l’applicazione dell’aborto, se non di impedirlo del tutto, piuttosto che di aiutare la donna nel compiere una scelta informata e consapevole.

Queste critiche si sono dimostrate, a posteriori, più che fondate. L’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza è oggi decisamente difficoltosa. Nell’aprile 2014 il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa rese pubblica una risoluzione del settembre 2013 che poneva sotto la lente d’ingrandimento l’Italia, ed in particolare proprio le Marche, dove in ben tre ospedali (Fano, Jesi e Fermo) la totale assenza di medici non obiettori rendeva impossibile l’applicazione dell’IVG, in contravvenzione con l’Art. 11 della Carta Sociale Europea. Richiamo che è stato rinnovato esattamente una settimana fa, in risposta ad un appello della CGIL sullo status del servizio, o meglio disservizio, dell’IVG in Italia. Il Consiglio d’Europa ravvisa due gravi irregolarità: “In Italia le donne che cercano accesso ai servizi di Ivg continuano ad avere difficoltà nell’ottenere l’accesso a tali servizi nella pratica, nonostante quanto è previsto dalla legge 194/78” e “L’Italia discrimina i medici e il personale non medico che non si dichiara obiettore di coscienza, che sono vittime di diversi tipi di svantaggi diretti ed indiretti”. Praticamente, un disservizio che non solo penalizza le donne che richiedono di ricorrere all’aborto nel rispetto della 194, ma anche i medici non obiettori che verrebbero penalizzati sul posto di lavoro, in termini di carico di lavoro e prospettive di carriera, per il semplice motivo di rendersi disponibili ad attuare quanto prescritto dalla legge stessa. Una situazione semplicemente paradossale.

A cosa sarebbe dovuto tutto questo? Mettiamolo in chiaro: in parte dalla formulazione della legge in sé, ma soprattutto dalla cattiva applicazione della legge stessa. O meglio, dalla disorganizzazione del sistema sanitario. Non si tratta di una battaglia di diritti: il diritto all’autodeterminazione dell’individuo è un diritto sacrosanto, sia che si tratti dell’autodeterminazione della coscienza morale del medico (da cui deriva l’obiezione di coscienza), sia che si tratti dell’autodeterminazione procreativa della donna (da cui deriva la richiesta di accesso all’IVG). Non si tratta nemmeno di rimettere in discussione la pratica abortiva in sé: non è un mistero che l’introduzione della L. 194/78 abbia a tutti gli effetti diminuito il numero complessivo di aborti in Italia, diminuendo in particolare il numero di aborti clandestini, che erano spesso praticati dalle cosiddette “mammane”, sotto lauto compenso, con mezzi assolutamente inidonei e, troppo spesso, a costo della vita della donna che vi si era rivolta in assenza di un’alternativa valida (per completezza di informazione: le cause di morte più comuni erano setticemia e dissanguamento, entrambe facilmente evitabili negli interventi abortivi eseguiti in ospedali).

La soluzione non è un salto indietro di 40 anni nella battaglia sui diritti civili. Anche perché, ed è bene ribadirlo fino allo sfinimento, quando l’aborto era illegale veniva praticato lo stesso, ma in clandestinità. Ancora una volta, la proibizione di un’attività non ne eliminava la pratica, ma la rimetteva nelle mani di persone senza preparazione medica né scrupoli etici.

Tuttavia, nel momento in cui uno dei due diritti viene violato, allora dovrebbe suonare un campanello d’allarme, un chiaro segnale che qualcosa non va. In Italia, a fine 2012 oltre il 70% dei medici operante in strutture che dovrebbero garantire l’IVG è obiettore, con punte del 100% in alcuni ospedali (tutt’altro che casi isolati, come già scritto sopra). Nessuna regione, ad esclusione della Val D’Aosta, ha oggi meno del 50% di medici obiettori. Il Ministero della Salute, nella figura del Ministro Beatrice Lorenzin, ha affermato che il dato sarebbe in calo, senza però divulgare il dato attuale – sospendiamo momentaneamente il giudizio su questa affermazione, quindi, per onestà intellettuale, e teniamo il dato verificato del 70% (ad ottobre 2015). Non si può nascondere che l’altissimo numero di obiettori sia una delle concause del disservizio per le donne, e della discriminazione per i medici non obiettori.

Ma qualcosa è già stato fatto? Nel 2010, per citare un esempio, la Regione Puglia indisse un bando selettivo per medici non obiettori nei consultori, al fine di integrare il personale mancante; il TAR però bloccò tale bando, ed invitò la Regione a legiferare affinché, nei bandi successivi, prevedesse pari quote di medici obiettori e non obiettori. In generale, in tutto il territorio nazionale è prevista la mobilità del personale medico affinché ogni struttura sia coperta da personale non obiettore – anche se, purtroppo, questa soluzione non può essere che temporanea, e viene utilizzata solo in casi di emergenza. Un’ulteriore soluzione prevede che la Regione stipuli contratti con cliniche private che garantiscono l’IVG – ma anche qui, la soluzione comporta a sua volta due problemi, stavolta di tipo economico e logistico: non tutte le donne che richiedono l’IVG riescono a sostenere i costi e gli spostamenti necessari a poter effettuare l’intervento in una struttura privata, spesso fin troppo lontana dal luogo di residenza della richiedente, senza contare l’allungamento dei tempi che, in casi come la richiesta di IVG, dovrebbero invece essere estremamente brevi.

La questione è lunga e complessa, anche senza tirare in ballo temi più recenti, come la (fin troppo) lenta introduzione della RU-486 negli ospedali italiani, e la mancanza di una corretta comunicazione e formazione culturale in ambito sentimentale, sessuale e dei diritti già acquisiti in termini di tecniche anticoncezionali e abortive – non tutti sanno, ad esempio, che il Norlevo, comunemente chiamato “pillola del giorno dopo”, è diventato da poco un medicinale senza ricetta; non tutti sanno che un medico od un farmacista non può rifiutarsi di venderlo, essendo un anticoncezionale e non un abortivo (pertanto non si applica l’obiezione di coscienza); non tutti sanno che un medico non può rifiutarsi di prescriverlo né un farmacista può rifiutarsi di venderlo, essendo un anticoncezionale e non un abortivo (pertanto non si applica l’obiezione di coscienza);

Ma di fronte ad una situazione simile, l’approccio italiano si è dimostrato passivo-aggressivo, purtroppo. Passivo, perché abbiamo uno Stato e delle Regioni immobili, che evitano di modificare od integrare la legge, né cercano di costruire un’organizzazione sanitaria più efficiente, nascondendosi dietro al fatto che la L. 194/78 di per sé non prevede forme di equilibrio tra il diritto all’accesso all’IVG e il diritto all’obiezione di coscienza. Aggressivo, perché quel poco che è stato fatto a livello nazionale nell’ultimo periodo, è stato fatto nell’ottica di criminalizzare le donne che ricorrono all’aborto clandestino (cfr: D.L. 8/2016, art1, comma 5), invece che aiutare queste stesse donne semplificando l’iter di accesso all’IVG.

Insomma, c’è ancora tanto, molto lavoro da fare, affinché il diritto di accesso all’IVG ed il diritto all’obiezione di coscienza siano effettivamente due diritti applicati in maniera giusta ed equa, non solo sulla carta. Ed è questa una battaglia su cui i Giovani Democratici non devono, non possono tirarsi indietro. In questa situazione di disagio che, conviene ripeterlo, ormai colpisce tanto le donne quanto i medici, è necessario che vengano adottati provvedimenti seri, atti a facilitare l’iter che porta all’IVG per chi ne fa richiesta, e a combattere la discriminazione lavorativa tra medici obiettori e non obiettori – due obiettivi che possono essere raggiunti solo se c’è una vera collaborazione tra Stato e Regioni per integrare la legge e migliorarne l’applicazione sui territori.